5 Problemi di marketing che vanno risolti PRIMA di utilizzare l’automation marketing
Dopo anni di consulenza nel mondo del marketing online, specialmente con aziende che ci hanno chiesto un salto di qualità con l’implementazione dell’automation marketing, abbiamo notato un pattern ricorrente.
Molti imprenditori vogliono partire subito dal “come”: quale software usare, quali funnel attivare, quali metriche monitorare e questo senza aver risolto problemi antecedenti ovvero il “chi” vende e il “perché” vende. In tanti casi si tratta di aziende con grandi potenzialità, ma che ben presto finiscono per arrancare e non svoltare per colpa di problemi di marketing ben più profondi e strutturali. Problemi che nessuna automazione, nessuna formula di marketing potrà mai risolvere da sola.
Sono problemi ricorrenti che conosciamo a memoria e che qui riuniamo tutti assieme.
5 Problemi di marketing che vanno risolti prima di utilizzare l’automation marketing
In questo articolo passiamo in rassegna i 5 problemi di marketing più gravi (e più diffusi) che abbiamo visto nei nostri anni sul campo.
Non si tratta di errori di poco conto, come dimostra anche un recente studio di MarketingSignals.com che individua nelle “scarse performance di marketing”, la causa maggioritaria nel fallimento delle aziende online nel primo anno di attività.
Li analizziamo uno per uno, spiegando cosa succede se li ignori e cosa puoi fare per affrontarli, perché il marketing non funziona a colpi di tool, ma a partire da fondamenta solide.

1. Non avere un’identità chiara
Uno degli errori più comuni è pensare che per vendere basti “esserci”. Ma se le persone non capiscono chi sei, cosa rappresenti e perché dovrebbero sceglierti, finirai per essere solo uno dei tanti. Invisibile nella massa, facilmente sostituibile.
Quando sei un brand come gli altri, il risultato è sempre lo stesso:
- Si entra nella guerra dei prezzi. Senza qualcosa che ti distingue davvero, il prezzo diventa l’unico argomento. E quando vinci solo perché costi meno, stai perdendo.
- Diventi una scelta casuale. Se il cliente ti sceglie per abitudine o perché non ha trovato di meglio, sparirai alla prima alternativa più brillante.
- Ti scolori. Senza una personalità riconoscibile, col tempo smetti di essere notato. Anche se continui a comunicare, nessuno ti ascolta davvero.
A questo argomento abbiamo dedicato molti articoli.
Dal come e perché fare branding, al purpose marketing, il concetto da assimilare e fare proprio è che il brand deve essere autentico, credibile, e soprattutto entusiasmante.
Il cliente deve averci voglia di sceglierlo, preferendolo ad altri, grazie alle sue caratteristiche e alla sua identità.
Come dare identità ad un brand
Serve costruire un’identità forte, non solo dal punto di vista estetico, ma soprattutto strategico. Questo significa:
- Essere coerenti. Non puoi cambiare volto ogni volta che cambi canale. Scegli un messaggio chiave, rendilo chiaro e ripetilo finché non diventa parte della percezione del tuo pubblico. Evidenzia la tua value proposition, il valore che a differenza degli altri, solo tu offri al mercato (o quanto meno che sei il più bravo a spiegare).
- Essere autentici. Le persone non cercano perfezione, cercano verità. Non provare a sembrare qualcun altro: mostra chi sei davvero. È l’unico modo per creare fiducia.
- Essere rilevanti. Non parlare a tutti. Parla a chi ti serve davvero. Se cerchi di piacere a tutti, finisci per non lasciare il segno in nessuno.
- Essere diversi. Essere competenti è il minimo. Quello che conta è ciò che ti rende unico. Se il tuo messaggio è identico a quello di altri dieci competitor, il mercato non ti noterà.
Alla fine, tutto si riduce a questo: senza identità sei invisibile. Con un’identità chiara e riconoscibile diventi un punto di riferimento. I clienti non solo si ricordano di te, ma si fidano. E quando c’è fiducia, non c’è più bisogno di inseguire: iniziano a cercarti loro.
2. La paura di cambiare
Questo problema ricorre dopo che si è partiti. L’azienda ha iniziato con una sua proposta di valore e, almeno all’inizio, ha funzionato: c’è stato riscontro, c’è stato apprezzamento. E conversioni.
Ma dopo una breve crescita iniziale, l’azienda stagna. Il prodotto non ha mai sfondato e ci sarebbe bisogno di una seria riflessione, analizzare cosa ha funzionato e poteva funzionare meglio e cosa ha funzionato poco e adesso non funziona per niente.
Bisogna fare delle scelte. E cambiare. E qui arrivano i problemi.
L’imprenditore non vuole cambiare, è affezionato alla sua idea, al prodotto che ne è seguito e si inventa milla scuse per non rinnovare, innovare, sparigliare le carte.
(tempo fa avemmo a che fare con un imprenditore che aveva messo su un sito di informazioni sui family hotel con target famiglie con bambini.
Non funzionò, ma intanto si scoprì che il pubblico era interessato ai pannolini biologici e non c’era all’epoca, nessuno che aveva organizzato un e-commerce per questo target. Adesso lo fa lui).
A parole, tutti dicono di voler crescere, ma nei fatti fanno di tutto per restare dove sono. C’è una convinzione, difficile da estirpare: che restare fermi sia più sicuro che muoversi. Che mantenere ciò che si ha sia più saggio che tentare qualcosa di nuovo.
Spoiler: non è così.
Rimanere fermi non significa proteggere, significa perdere lentamente. Un pezzo alla volta. Senza clamore, senza drammi. Si smette semplicemente di contare qualcosa nel mercato.
Abbiamo visto aziende piene di talento e idee che si sono spente così. Non per un errore clamoroso, ma per una serie infinita di “dopo vediamo”.
Ogni decisione rimandata, ogni innovazione ignorata, ogni segnale sottovalutato è un passo verso l’irrilevanza.
Tutti vogliono migliorare. Pochi sono disposti a trasformarsi.
Il cambiamento fa paura. Richiede di uscire da ciò che conosci, di affrontare dubbi, rischi, imprevisti.
Eppure, chi costruisce davvero qualcosa di grande non è chi evita gli errori, ma chi ha la forza di affrontarli velocemente, imparare e ripartire.
Aspettare il momento perfetto è la scusa preferita di chi non vuole affrontare il salto. Ma il momento perfetto non arriva. Il mercato non ti dà appuntamenti. Si muove. E se tu non ti muovi, resti indietro. Punto.
3) Il miraggio del “target ideale”
Tutti gli imprenditori partono con lui, “il target ideale”. Individuato fino all’osso: “25 anni, senza famiglia, lavora in grandi aziende, appassionato di tecnologia, ama andare a ballare, apprezza le cose belle” eccetera eccetera.
Lui e il relativo funnel di vendita, strutturato solo per lui sono la Bibbia incontestabile del marketing in azienda.
Il problema è che si tratta spesso di fiction. La realtà è molto più complessa. Come ha dimostrato la ricerca di Google sul Messy Middle, che qui citiamo spesso, il cliente è tutt’altro che “ideale” e “automatico” nel suo processo di acquisto.
Cambia idea spesso, si convince di una cosa e poi fa marcia indietro per una recensione, o per un consiglio di un amico, o perché si stanca e agisce d’impulso; o è frustrato e sceglie di non comprare.
Insomma, il target ideale non esiste. Esiste una approssimazione, che va certamente inseguita e verificata, ma non ci si può limitare a questo.
I clienti sono persone, e sono le persone che l’azienda deve individuare. E le persone sono uniche, non sono standardizzate
Per colpire nel segno si cerca di restringere il pubblico. Ma più si restringe, più il bersaglio non solo diventa difficile da colpire, ma una volta colpito rischia di essere residuale. Per inseguire lui ci siamo scordati tutto il resto del mondo.
4) Troppe metriche, zero controllo
Anche questo è un problema che avviene dopo la partenza, quando il nostro consulente o addetto al marketing chi ha imposto di verificare ogni minuto 20 KPI al mese e 30 a trimestre.
Ora, le KPI sono importanti e ne abbiamo chiarito il valore in questo articolo.
È necessario avere delle metriche base che misurino l’impatto sul tasso di conversione di campagne, traffico organico, lead magnet, lead generation e tutta l’architettura che abbiamo messo online.
Ma troppe KPI sono il male. Non puoi stare dietro a dieci metriche contemporaneamente, che una volta interpretate possono dire tutto e il suo contrario.
Sei tu a scegliere le KPI, non loro a scegliere te
Le KPI vanno attentamente selezionate in base agli obiettivi del business e una volta individuate vanno monitorate solo quelle. O meglio, le puoi guardare tutte, ma solo alcune sono quelle che ti indicano le scelte da compiere.
Il tasso di conversione (in clienti o in lead) è naturalmente la metrica base.
E poi il tasso di lead generati dai tuoi lead magnet.
Ma ad esempio, abbiamo già scritto in passato che l’open rate del tuo email marketing è un dato che è diventato abbastanza inutile, per tutta una serie di motivi.
Anche il CPC, o il CTR sono metriche da prendere con le molle. Che te ne fai di un costo per click decrescente se poi il click non converte?
O un ottimo tasso di CTR, se poi quelli che arrivano dalle tue campagne se ne vanno al primo step del funnel?
Devi evitare che il tuo marketing digitale diventi una giungla di numeri dalla quale non riuscirai più a uscire.
Tieni presente che hai a che fare con persone. E le persone, come abbiamo detto prima, sono contraddittorie e caotiche. E il marketing non è una scienza esatta, vive di numeri ma anche di intuizioni, di emozioni, di impennate di successo e di oblii conseguenti.
È un continuo andare sulle montagne russe, e a volte ti diverti e a volte ti senti male.
Il che ci porta al quinto e ultimo punto:
5. Il marketing è più psicologia che numeri
Come afferma spesso Cristiano Gallinelli (la cui newsletter su Marketing e matematica ti consigliamo di seguire), il marketing non funziona come un’equazione.
Non basta sommare investimenti e canali, dividere per CPC e moltiplicare per ROAS per ottenere un cliente fedele.
Perché le persone non decidono solo con la logica. Decidono con l’istinto, con il bisogno di sentirsi al sicuro, con l’immagine che vogliono dare di sé.
Un esempio? Hai mai notato come certi brand di acqua vendano bottiglie a 3 euro solo perché sembrano “di design”?
L’acqua è sempre acqua. Ma il marketing lavora sulla “percezione del valore”, non sul valore in sé. E la percezione è una questione psicologica.
Oppure pensa ai saldi: *“Fino al 70% di sconto!”*
Non importa che il prezzo iniziale fosse gonfiato. La promessa di risparmio attiva nel cervello un meccanismo di urgenza e desiderio.
Non è razionale, ma funziona.
La psicologia spiega:
- Perché le recensioni valgono più delle specifiche tecniche.
- Perché il tono di voce di un brand può attrarre o allontanare un cliente a parità di prodotto.
- Perché le persone comprano emozioni, non solo soluzioni.
Ecco perché un bravo marketer studia meno numeri e più comportamenti.
Osserva, ascolta, interpreta.
E sa che dietro ogni clic c’è un essere umano con una storia, delle paure, dei desideri.
Se vuoi vendere davvero, devi capire *perché* qualcuno compra. E quel perché vive nella testa – e nel cuore – delle persone.
Conclusione.
L’automation marketing è uno strumento potente, ma non fa miracoli.
Se la tua proposta non è chiara, se il tuo target non è definito, se il tuo posizionamento è debole o se i tuoi contenuti non generano fiducia, nessuna automazione potrà salvarti.
Anzi, rischi di automatizzare problemi invece che risultati. Prima di pensare a funnel, trigger e sequenze automatiche, lavora sulle basi. Fai ordine.
Chiarisci la tua identità, capisci chi vuoi attrarre, allinea messaggi e contenuti al pubblico giusto.
Solo dopo, l’automation potrà fare il suo lavoro: amplificare ciò che funziona. Perché l’automation non crea valore. Lo moltiplica. Ma prima devi costruirlo tu.